È il 3 aprile 2020. Fuori fa caldo, c’è un bel sole, ma purtroppo dobbiamo limitarci ad osservarlo dalla finestra per via dell’emergenza sanitaria che stiamo vivendo.
Oggi sono al telefono con Camilla Theodoli, una studentessa della facoltà di Psicologia dell’Università Europea di Roma, nonché membro della squadra di calcio dell’università.
Ho deciso di scambiare due chiacchiere con lei, facendole qualche domanda riguardante la sua vita.
Le chiedo innanzitutto di fare una breve introduzione su di sé, in modo tale da presentarsi ai lettori e rompere un po’ il ghiaccio.
È la prima intervista per entrambe, e l’emozione si fa sentire.
Mi chiamo Camilla Theodoli, ho 20 anni e studio Psicologia. Ho fatto vari sport nella mia vita come equitazione, calcio e poi ovviamente i classici sport che si fanno da bambini, tipo il tennis, il nuoto…
Bene, hai nominato anche il calcio, hai detto che non è stato lo sport principale, ma ora pratichi questo giusto?
Certo, sì.
E come ti sei avvicinato al mondo del calcio e perché?
Allora, considera che da piccola ho sempre giocato con i miei amici, già dalle elementari/medie, ero fissata. Poi, avendo un fratello più grande, giocavo sempre anche con lui. Tra l’altro, alle elementari e alle medie ero in una scuola americana, e lì erano fissati con lo sport, ci facevano sempre fare tanti tornei con le altre scuole internazionali. Giocavo sempre in squadre di maschi, ma era molto leggera come cosa, mi ha sempre divertito tantissimo. Solo che, come dicevo, al liceo ho iniziato a montare a cavallo e quindi il calcio l’ho un po’ lasciato da parte. Giocavo giusto qualche partita ogni tanto, anche perché non sono riuscita a trovare delle squadre femminili.
Quindi mi dicevi che hai iniziato a giocare da piccola, verso le elementari. Hai sempre scelto tu di giocare o magari nella tua scuola era obbligatorio partecipare?
No no, ho sempre deciso io, lo adoravo. Poi stavo sempre con i miei amici, e visto che loro lo facevano mi ci sono messa anche io.
E le squadre erano miste?
Sì. Finché ero più piccola non è stato un problema. Solo che poi crescendo, i ragazzi diventano più forti. Infatti, se non avessi trovato una squadra femminile non penso che avrei più giocato.
Ma eri l’unica femmina della squadra?
No no, eravamo in tre.
E com’era stare in una squadra prettamente maschile?
Considera che ero più piccola, quindi le dinamiche erano meno portate all’estremo. Però non sentivo molto questa differenza, né fisicamente né emotivamente.
Certo, però magari sai, da bambini soprattutto, si hanno un po’ di stereotipi, per cui magari ci viene detto che essendo femmine non possiamo giocare a calcio.
Ah, certo, quello sempre. Mi ricordo anche quando marcavo qualcuno mi dicevano sempre “eh, perché sei una ragazza…!” Però ero talmente piccola che non ci facevo caso.
(risata) Giustamente, posso immaginare. E invece mi dicevi, Come mai hai deciso di entrare a far parte della squadra dell’UER?
Perché il primo anno di università non avevo fatto sport, poi io non sono il tipo che si mette a fare palestra…Avevo sentito che ci fosse questa squadra, ma essendo il primo anno volevo prima ambientarmi e capire come funzionasse l’università. Poi ho capito che rendevo meno e che per me era fondamentale scaricare le energie. Quindi ne ho approfittato perché ho trovato questa squadra femminile e ho iniziato a giocare lì. Poi è molto comodo, visto che dopo mi fermo a studiare direttamente lì.
E come ti trovi nella squadra?
Con le ragazze mi trovo molto bene, abbiamo un bel rapporto. Io sono la più piccola direi, ma non si sente. Poi la maggior parte di loro studia psicologia, quindi mi danno anche dei consigli sui professori, sulle materie, sugli esami… Anche l’allenatore è molto carino. Poi mi piace perché, nonostante sia un divertimento, la prende molto sul serio e ti sprona sempre a fare del tuo meglio, dandoti molti consigli e motivandoti sempre. Ed è un bene perché alla fine ti senti molto più gratificato.
È vero, hai ragione, e tu che ruolo giochi?
Allora, solitamente sto sulla fascia destra, poi ogni tanto mi sposto sulla fascia sinistra. Poi in base alle partite che dobbiamo fare, è capitato che mi mettesse come difensore centrale. Sulla fascia è molto faticoso perché devo correre avanti e indietro, e io in realtà non ho tutto questo fiato, però anche questo mi sprona molto a fare sempre di più.
E se dovessi scegliere un ruolo, quale sarebbe?
Mhmm, mah… O questo, perché mi ci trovo molto bene, oppure punta, perché è divertente anche lì.
A proposito di divertimento, parliamo di sentimenti: che emozioni provi prima di scendere in campo?
Allora, come avrai notato all’inizio, sono una persona un po’ ansiosa. Però nel calcio molto meno. Dal momento che c’è una squadra con la quale condividere le emozioni, è tutto più leggero. Non dipende tutto da te, anche se poi questo va in base alle partite chiaramente. Ma la base alla fine è il divertimento. Negli altri sport ero sola, sentivo più pressione. Nel calcio mi riesce più facile perché all’interno della squadra ci influenziamo a vicenda.
Assolutamente, la condivisione è molto importante. In merito a questo, prima mi dicevi che quasi tutte frequentate psicologia e che spesso vi scambiate consigli. Quindi, visto che ci siamo, vorrei chiederti come mai hai deciso di studiare Psicologia?
Allora, immagino un po’ come tutti per delle dinamiche o esperienze che mi ci hanno avvicinata. In realtà mi interessa da sempre, solo che ero indecisa perché avevo paura che mi influenzasse troppo… Invece iniziando a studiarla ho capito che erano delle conoscenze che venivano apprese, ma finiva lì. Se ti influenza lo fa positivamente, in modo costruttivo. Penso che tutti quelli che fanno psicologia la facciano per conoscersi meglio o per delle dinamiche che ce li hanno avvicinati, non succede così dal nulla.
Come ti stai trovando? Ha soddisfatto le tue aspettative?
Sono partita che non ero per niente sicura, ma ora mi trovo molto bene, meglio di come credevo.
Queste due scelte ti hanno cambiata nei modi di pensare o di vivere la vita?
Si, certo. Il calcio, ma in generale lo sport, secondo me ti dà una disciplina, ti insegna la costanza dell’impegnarti in qualcosa. Sono tanti piccoli sforzi che ti fanno raggiungere poi l’obiettivo finale. E questo lo porti anche negli altri ambiti. Come nello studio, ad esempio, dove capisci che devi fare le cose piano piano per poi arrivare all’obiettivo maggiore. Anche per quanto riguarda psicologia, come in realtà credo ogni corso di laurea, ti va ad influenzare in quello che fai, anche umanamente. Forse psicologia in particolar modo. Ti dà degli strumenti per capire gli altri e te stesso, ti apre proprio la mente.
C’è una persona che devi ringraziare e che ti ha supportata durante questi percorsi? Anche te stessa magari…
Non è che abbia fatto cose così grandi (risata). Comunque, persone in particolare non lo so, forse i miei genitori che mi hanno sempre spronata a fare quello che volevo, mi hanno sempre lasciata libera e mi hanno appoggiata. Anche i miei fratelli mi sono stati sempre vicini, ed essendo maggiori sono stati fondamentali. Non so, una persona in particolare non mi viene. Alla fine, mi sono sempre spronata da sola.
Beh, credo sia giusto così alla fine. Invece, hai mai avuto un sogno da bambina? Se sì, senti di averlo realizzato?
Sogni in particolare no. Diciamo che crescendo ho capito che quello che mi rendeva felice era aiutare gli altri. Ora che so che sto facendo qualcosa che, non so dove mi porterà, ma che mi dà degli strumenti per poter fare del bene, sento di essere nel posto giusto e sento di fare la cosa giusta. Poi ovviamente è da vedere quello che succederà. Però per ora sono soddisfatta.
Hai dei rimpianti?
No, ma non ho nemmeno motivo di averne. Sono convinta di tutte le scelte che ho fatto fino ad ora.
Beh, buono, questo credo sia fondamentale. Quindi non c’è stato un momento della tua carriera, sia calcistica che universitaria, in cui hai pensato di mollare tutto e dedicarti a qualcos’altro?
Mollare proprio no. Poi ovviamente all’inizio, quando era tutto nuovo, ci sta che pensi che forse non è questo quello che devi fare. Ma sarà stata tipo un’ora, massimo un giorno. Poi finisce là e vado avanti, e sono contenta. Magari ci sono delle cose o delle materie che studio meno volentieri di altre, però poi penso che sia ciò che voglio fare dopo, quindi alla fine le faccio volentieri. Non so ancora precisamente che specializzazione prendere, ma so che è l’ambito giusto.
E già è tanto (risata). Che consiglio ti senti di dare a chi ha preso il tuo stesso percorso? O magari proprio alla te più piccola, che ancora non sa cosa aspettarsi…
È tosta questa… (risata). Sai cosa? Magari lì per lì avrei avuto bisogno di consigli o di supporti, ma con il senno di poi sento che va bene così, per quanto sia stato frastagliato il percorso per arrivarci…
Quindi ti diresti di continuare a fare quello che stai facendo senza arrenderti?
Sì. Penso che se non avessi avuto tutti gli intoppi che ci sono stati nel percorso, non sarei dove sono. Quindi mi direi di andare avanti, non so se mi spiego…
Certo, è un pensiero molto bello tra l’altro. Ti faccio l’ultima domanda. Per quanto riguarda l’emergenza Covid-19: come la stai vivendo e quali sono i tuoi pensieri al riguardo?
Eh, diciamo che per fortuna non me la sto vivendo proprio in prima persona, visto che la mia famiglia i miei amici stanno tutti bene. C’è gente che sta davvero male purtroppo, quindi non mi sento di dire chissà cosa. Però mi ha fatto impressione. Mi sono accorta realmente di quello che stava succedendo quando hanno iniziato a chiudere tutto. Prima noi, poi è diventata una pandemia mondiale. È stato scioccante… È strano perché sai che sta succedendo di tutto fuori, ma da casa diciamo che non la vivi realmente. Cerco di non pensarci troppo, giusto quando vedo il Telegiornale. All’inizio non ho vissuto così male il fatto di stare a casa in quarantena, perché magari uno si ferma anche un attimo. Poi però, avendo sempre avuto una vita frenetica, con i giorni inizia abbastanza pesare. È come se ci fosse una sorta di apatia, durante le giornate non si fa più nulla. E la cosa davvero strana è vedere che siamo tutti fermi. Da un lato però mi sento fortunata, perché alla fine sto bene, sto a casa. Mi sento anche in colpa a volte a pensare a chi la sta vivendo davvero in prima persona, come al nord. Non mi sento proprio di lamentarmi.
Condivido molto questo suo ultimo pensiero. Credo sia giusto pensare a chi sta peggio e sforzarci per fare qualche sacrificio, nel nostro piccolo, per dar loro una mano.
Siamo giunti così alla conclusione dell’intervista. È stato molto piacevole parlare con Camilla. Credo sia sempre utile alla propria crescita conoscere il punto di vista delle altre persone, oltre che essere molto interessante. In questi giorni di emergenza che stiamo vivendo, nei quali siamo costretti a dover rimanere chiusi nelle nostre case, mi ha fatto particolarmente piacere aver avuto la possibilità di conoscere una persona nuova, e di portare un po’ di novità in queste giornate.
Camilla Fiorimanti